Il sito Kataweb Cucina presenta con un articolo di Mariella Santarelli dell’Espresso, l’uscita nelle librerie di un testo dedicato alla cucina napoletana che prende spunto da un insolito Giacomo Leopardi che nel soggiorno all’ombra del Vesuvio ebbe ad annotarne le delizie.
Fiori di zucca fritti, bigné di patate, polpettone, cacio cotto: frammenti di una squisita (letteralmente) eredità leopardiana. Leopardi gourmet? A sbigottirci con questa tesi (dimostrata) arriva un libro, “Leopardi a tavola”, di Domenico Pasquariello “Dégo” (docente) e Antonio Tubelli (cuoco), in libreria per i tipi della Logo Fausto Lupetti Editore
Tutto nasce da due foglietti lunghi e stretti di carta ingiallita, custoditi nella Biblioteca Nazionale di Napoli: una lista di ricette. Fanno parte di un malloppetto di carte autografe di Leopardi, che consumò in quella città l’ultimo lembo della sua vita, dal 1833 al 1837. La scrittura elegante e pulita che ci ha tramandato versi zuppi di classicità e grondanti amarezza, slanci morali e un certo distacco, se non disprezzo, per ciò che è materiale, sciorina qui un elenco di prelibatezze del tutto terrene. Il poeta del Passero solitario e de L’Infinito, convertito all’edonismo gastronomico, si dilunga in minuziose descrizioni di ingredienti, procedimenti, dettagli degni del più raffinato ed esigente buongustaio.
La lista di ricette, 49 in tutto, nasce negli anni felici che Leopardi trascorse a Napoli, ospite dell’amico Antonio Ranieri, il quale nel 1833 lo convinse a trasferirsi lì, perché l’aria di Napoli gli avrebbe fatto bene. Verissimo. Infatti Leopardi apprezza tutto: l’aria, l’atmosfera, la gente. E la cucina. In particolare, quella di Pasquale Ignarra, cuoco sopraffino e rivoluzionario militante (parteciperà poi ai moti del 1799). Pasquale seduce Giacomo con la sua abilità ai fornelli e, probabilmente, anche con la sua personalità. Conduce l’amico forestiero a visitare e scoprire le bellezze della campagna napoletana (Villa Ginestra, la dimora che ospitava i due, è a Torre del Greco), immersi nei profumi di timo e rosmarino, con la sua frutta spettacolare, i prodotti genuini. E Leopardi mangia, con gusto, con soddisfazione. Lui, che, dicono i suoi scritti, spesso non toccava cibo se non si sentiva ispirato da tutto il contesto.
La sua, come spiega Domenico Pasquariello (nella foto a sx), uno degli autori del libro, era una concezione galeniana dell’alimentazione: mangiare per star bene, nell’armonia perfetta di cibo, ambiente, situazione. Pasquariello, intellettuale-artista romano che vive prevalentemente a Parigi (la sua segreteria telefonica risponde in latino), teorico della pittura-cucina, ha messo insieme stralci di testi leopardiani che descrivono il suo rapporto con il cibo: in alcune lettere ai parenti e agli amici, per esempio, menziona la nostalgia di certi alimenti, specialmente dolci (il “gelato di latte e di miele”), assaggiati durante le feste paesane. Antonio Tubelli (foto in alto a dx), cuoco apprezzatissimo a Napoli, rimette in ordine le ricette, rintraccia gli ingredienti, che non sempre corrispondono a quelli odierni: un’opera di scavo nell’archeologia gastronomica che gli è particolarmente congeniale. E, dice, arriva alla conclusione che Leopardi fu il vero “Garibaldi della cucina italiana”, cioè la unificò mezzo secolo prima del vate Pellegrino Artusi, poiché le sue ricette spaziano dalle specialità liguri a quelle siciliane, passando per Marche, Romagna, Lazio e naturalmente Campania. Tenendo conto che lo stesso Regno delle due Sicilie era un territorio vasto, in cui idee, spunti, tradizioni, costumi, e anche prodotti e ricette, circolavano e si mescolavano.
I due autori, alla ricerca di un Leopardi perduto, hanno girato per un anno tra Napoli e dintorni, annusando, assaggiando, discutendo: non lo sapevano, ma hanno ricreato la coppia Leopardi-Ignarra, trovando un´affinità che nasce in cucina e continua nelle sensazioni e nel pensiero. Hanno visitato Villa Ginestra, tutelata come patrimonio nazionale, hanno fatto riaprire la vecchia cucina. E, miracolo, l’hanno ritrovata intatta, il tavolo lunghissimo, i tre fornelli a legna. Emozionante conclusione di un pellegrinaggio. Il libro ne è anche il resoconto.